venerdì 23 agosto 2013

Lo specchio della vita delle donne nei Kilim

L’immagine di Penelope che tesse e disfa la propria tela è forse uno degli iconemi più volgarmente impressi nell' immaginario collettivo che rimanda ad una indomita capacità secolare della donna di superare congiunture difficili attraverso l’espediente della pazienza e di una sapiente furbizia. La tela di Penelope fu un celebre stratagemma, narrato nell'Odissea, creato da Penelope, la quale per non addivenire a nuove nozze, stante la prolungata assenza da Itaca del marito Ulisse, aveva subordinato la scelta del pretendente all’ultimazione di quello che avrebbe dovuto essere il lenzuolo funebre del suocero Laerte. Per impedire che ciò accadesse la notte disfaceva ciò che tesseva durante il giorno. Oggigiorno si cita la tela di Penelope per riferirsi ad un lavoro che non avrà mai termine.

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Kilim è una parola turca che indica un tappeto a tessitura liscia caratterizzato da motivi decorativi strettamente legati alla cultura che li ha prodotti. Le aree geografiche per tradizione produttrici di kilim sono l’Africa Settentrionale, l’Anatolia, la Persia, il Caucaso, l’Afghanistan e l’Asia Centrale. In queste zone le tribù nomadi, perennemente in cammino per condurre al pascolo le capre e le pecore, e le popolazioni stanziali del deserto hanno dato vita a stoffe variopinte che permettessero loro di proteggersi dal caldo e dal freddo e di ripararsi dalle intemperie. Il kilim è così diventato elemento essenziale di tali popolazioni, fino a scandirne i momenti più importanti della vita, come ad esempio il matrimonio. Ancora oggi, in molte di queste zone, si producono tappeti di grande qualità e bellezza, spesso destinati al mercato occidentale.

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Le filatrici e le tessitrici soprattutto orientali, già nell’antichità “prigioniere” di un lavoro che desta meraviglia per l’infinito sacrificio che richiede, essendo una attività silente poco o per niente riconosciuta e remunerata, hanno dove è stato possibile lasciato una trama di linguaggi nei Kilim, che vanno letti come dei libri per comprendere ciò che racconta la sua tessitrice. Ad esempio aggiungendo un piccolo motivo di mano sul Kilim una donna firmava la sua opera e simboleggiava se stessa oppure la giovane donna che tesseva disegni di orecchini sui suoi Kilim indicava ai genitori il desiderio di sposarsi.

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Il Kilim infatti nella sua interpretazione culturale più aulica ed estesa riflette la vita di colei che l’ha tessuto e la cultura del gruppo cui apparteneva; vi compaiono motivi ricorrenti legati al mondo femminile: ornamenti come gli orecchini, il pettine, il cofanetto e molti altri fino al simbolo della maternità e della fertilità della donna con il motivo “Elibelinde” (Le mani sui fianchi).

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Elibelinde ( Le mani sui fianchi ) Sicuramente il motivo più conosciuto, esso è considerato l'archetipo dei simboli raffigurati sui vecchi kilim. Viene chiamato 'mani sui fianchi', 'dea madre', 'madre terra', e così via; qualcuno vede in esso un simbolo di maternità e fertilità, altri un qualcosa di magico se non addirittura di mistico. I Kilim, opere di inestimabile valore sia come opere d’arte che come testimonianze culturali, si configurano pertanto anche come lo specchio della vita delle donne che li tessevano e dell’educazione a cui erano sottoposte al fine di prepararle ai segreti dell’adolescenza, del matrimonio, del parto e della morte; nel tramandarsi le geometrie, le tecniche, i motivi, i colori, il gruppo si garantiva la trasmissione di un antico bagaglio culturale gettando le fondamenta iconoclastiche per una proficua successione e conservazione di remoti equilibri sociali.

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Il Kilim racconta nello stesso tempo i desideri e le aspirazioni della tessitrice ed anche il loro modo di intendere ed affrontare il destino; quando una donna realizza un motivo di scorpione intende con ciò allontanare l’animale stesso, e la minaccia implicita, non solo dal suo focolare ma anche dal suo villaggio e dal suo paese; la giovane donna che tesseva disegni di orecchini sui suoi Kilim indicava ai genitori il desiderio di sposarsi. In particolare la donna Turca dell’Anatolia, utilizzando immagini e disegni simbolici di tradizione secolare ha intessuto il suo mondo ed i suoi segreti sui Kilim e sui tappeti, mantenendo nascosti i significati sentimentali dei motivi riprodotti persino ai loro mariti esclusi per tradizione a tutti i riti riguardanti l’adolescenza e il parto. Il Kilim era come un diario segreto e come tale spesso non si mostrava agli estranei, motivo per cui alcune tribù nomadi non vendono e non mostrano i loro Kilim agli sconosciuti e non raccontano neanche i significati dei motivi.

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Tali evincimenti si palesano in particolar modo considerando una leggenda molto conosciuta presso le tribù nomadi: “Un giorno il capo di una tribù nomade trovò un Kilim abbandonato all’ingresso della sua tenda. Lo prese e lo guardò attentamente e poi disse ad uno dei suoi uomini: “Trovami subito il padre della ragazza che ha tessuto questo Kilim e portamelo nella mia tenda”. Il padre fu trovato e portato nella tenda dell’ Aga che disse:” Da quel che ho capito credo che tu voglia maritare tua figlia con una persona che essa non vuole perché il suo cuore batte per un altro”. Il padre stupito rispose “Si signore, io non sono che un povero nomade e un uomo ricco ha chiesto la mano di mia figlia. Per il suo bene non ho potuto dire di no e a lui l’ho promessa. Ma mia figlia è innamorata di un giovane più povero di me. Ma!? Signore come fate voi a conoscere tutto ciò?” Il Signore mostrò il Kilim e chiese:” E’ stata tua figlia a tesserlo?” “Si Signore, riconosco il lavoro”. “E’ così, ho appreso tutto ciò attraverso il linguaggio di questo Kilim. Ti donerò dei cavalli e dei cammelli e tu potrai cominciare i preparativi del matrimonio con questo giovane. E di anche a tua figlia che lei ha ben tessuto il Kilim, ma che dovrà mettere meno verde nel rosso la prossima volta, mi stavo quasi sbagliando”.

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Umberto Galimberti nella rubrica epistolare di “D, La Repubblica delle Donne” in un articolo denominato “La trama delle donne” parla dei kilim quali “misteriosa orchestrazione di messaggi in codice, di alfabeti dimenticati, di simboli trascurati eppure fondanti quella cultura universale, da cui l'Occidente si è separato per affermare il primato della storia sulla natura, anzi della sua storia su quella primordiale cultura che concepisce la vita come unione degli opposti: la trama e l'ordito, il maschio e la femmina, il cielo e la terra, la vita e la morte. Per avere smarrito questa simbolica duale, di cui la donna è gelosa custode, noi occidentali trattiamo i kilim, le cui figure raccontano una storia di novemila anni trasmessa da madre a figlia, come semplici tappeti da calpestare. E in essi più non avvertiamo quella presenza amica che proteggeva dal vento e dalla sabbia, serviva da mensa, da letto, fungeva da spazio sociale, per discutere e chiacchierare, da culla per bambini, da paramento funebre, da luogo di preghiera, da serbatoio di segreti dove intessuti erano i sogni delle donne che la storia degli uomini ha solo trascurato e calpestato. Eppure lì, nel kilim, c'è la trama profonda del senso della storia che nascite e morti cadenzano, come vuole il ritmo della natura, che non si è mai fatta incantare dal racconto della storia nel suo incessante proferir parole di riscatto, progresso, redenzione.

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La maggior parte degli studiosi individua nei disegni dei kilim anatolici i simboli stilizzati dell’antica Dea Madre: di generazione in generazione le donne si sarebbero tramandate i motivi ricorrenti della loro zona. Nel 1958 l’archeologo inglese James Mellaart scoprì nella penisola anatolica a 50 km a sud-est di Konya un sito destinato a diventare celebre: Çatalhüyük. A Çatalhüyük, dove 9000 anni fa nacque la prima comunità umana di cui si abbia notizia, sembra che la donna avesse un ruolo dominante, testimoniato anche dal culto della Dea Madre, la cui figura nei manufatti artistici è spesso abbinata a simboli di potere, come leoni, avvoltoi, serpenti. Significativa a proposito la relazione che è stata individuata tra i simboli che compaiono sugli odierni kilim e gli antichi segni, legati al culto della Dea-Madre, rappresentati negli affreschi e su vari oggetti di Çatalhüyük. Secondo questa affascinante teoria quindi, le donne anatoliche avrebbero tessuto per millenni questi disegni, tramandandoli fino a noi. Testimonianza che la donna nella penisola Anatolica anticamente abbia ricoperto un ruolo di sicuro rilievo è anche attestato dal mito delle Amazzoni (in greco antico Αμαζόνες) popolo favoloso di donne guerriere della mitologia greca e da ultimo il fatto che precocemente nel 1934 la Turchia abbia riconosciuto alle donne il diritto di votare (ben prima della ‘democratica’ Svizzera che lo concesse solamente nel 1971 e dell’Italia che quasi contemporaneamente emanava invece le leggi razziali (Fonte: World Chronology of the Recognition of Women's Rights to Vote and to Stand for Election); nel 1935 furono elette delle donne al parlamento turco.

Articolo tratto in parte da www.inesplorazione.it

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